La Vocazione di San Matteo ed il rapporto fisco-contribuente

Un’opera d’arte ci racconta sovente una realtà storica e, contemporaneamente, ci parla anche della realtà odierna, svelando arcaiche origini di relazioni sociali e, nel medesimo tempo, i mutamenti che tali relazioni hanno subíto o subiranno.

Questo è il caso della Vocazione di San Matteo, che esprime perfettamente la realtà del tempo rappresentato nel quadro, quella del tempo dell’autore e la realtà odierna, palesando la difficile relazione tra fisco e contribuente, tra il peccatore Matteo e gli uomini del suo tempo che si sentono defraudati dalle imposte riscosse per uno Stato terzo.

Questa percezione collettiva, attualissima, è certamente collegata all’eccessivo carico tributario e al suo tecnicismo esasperato, ma è anche connessa alla diffidenza nella correttezza dell’operato dell’autorità tributaria, che si avverte estranea, esattamente come i romani per i palestinesi del tempo, alimentando spinte autonomistiche nelle realtà locali.

È il sopruso, l’uso improprio del ruolo ad alimentare il peccato, non è il tributo ad essere peccaminoso. Al centro del quadro è l’uomo e non la funzione: è l’etica dell’attuazione dell’imposta ad essere discussa e su tali aspetti provo a ragionare in:

http://amsacta.unibo.it/6017/1/Salvati_ISLL_Papers_2018_vol11.pdf

 

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Inapplicabilità dell’imposta proporzionale ai trasferimenti dei beni in trust.

La Cassazione, con sentenza n. 975 del 17 gennaio 2018, torna ad affrontare la questione dell’applicabilità delle imposte di registro, ipotecarie e catastali agli atti di trasferimento di beni immobili al trust e ribadisce il principio per cui il trasferimento del bene dal settlor al trustee avviene a titolo gratuito e non determina effetti traslativi, poiché non ne comporta l’attribuzione definitiva allo stesso. Il trustee, infatti, è tenuto solo ad amministrare il bene ed a custodirlo, in regime di segregazione patrimoniale, in funzione del suo ritrasferimento ai beneficiari del trust: ne consegue che detto atto è soggetto a tassazione in misura fissa, sia per quanto attiene all’imposta di registro che alle imposte ipotecaria e catastale.

Rispetto agli orientamenti emersi in precedenza, la sentenza in esame apporta spunti di riflessione ulteriori, che attengono alla stessa configurabilità del presupposto della sussistenza di un trasferimento per l’applicazione delle relative imposte, sottolineando la natura transitoria e finalistica del passaggio dei beni in trust ed evidenziandone le incompatibilità con il sistema di tassazione indiretta sui trasferimenti.

La transitorietà del trasferimento indefettibilmente caratterizza lo schema negoziale del trust sicché l’atto non si può considerare immediatamente produttivo di effetti traslativi in senso proprio, dal momento che sono tali solo quelli finali, costituenti il presupposto dell’imposta di registro. Lo stesso principio è applicabile anche alle imposte ipotecarie e catastali, giacché l’atto soggetto a trascrizione, ma non produttivo di effetto traslativo in senso proprio (id est, definitivo), postula l’applicazione di dette imposte in misura fissa.

È proprio nel concetto di proprietà trasferita che è possibile individuare la chiave di volta per la definizione uniforme dell’applicabilità o meno delle imposte sui trasferimenti indipendentemente dal titolo oneroso o gratuito che caratterizza ciascuna, atteso che l’applicazione delle suddette imposte è condizionata da un effettivo trasferimento della titolarità del diritto immobiliare, cui va ricollegata la capacità contributiva tassata.

Questa tesi la propongo qui:

http://www.innovazionediritto.it/archivio.php?view=articolo&anno=2018&pubblicazione=2&number=3

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Riflessioni in materia di imposta di pubblicità

L’imposta di pubblicità, nell’ambito dei tributi locali, presenta taluni problemi applicativi che necessitano di alcune riflessioni. Si tratta di questioni possono essere affrontate alla luce di una corretta interpretazione del presupposto di imposta, che va analizzato non solo in base alla natura locale del tributo e quindi alla valorizzazione dei luoghi e dei destinatari potenziali del messaggio pubblicitario, ma alla stessa natura di imposta di tale forma di prelievo. In quest’ottica, l’imposta va interpretata tenendo conto che il presupposto non può essere collegato al mero sfruttamento di spazi pubblici per fini privati, ma si fonda sul fatto che chi effettua la pubblicità manifesti una specifica forza economica. L’imposta grava su una platea potenzialmente aperta di soggetti passivi che, esercitando un’attività economica, promuovono la domanda di beni e servizi o migliorano la loro immagine tramite un’ampia gamma di comunicazioni diversa da quelle assoggettate al diritto sulle pubbliche affissioni. Occorre valorizzare la finalità della pubblicità da parte dell’esercente l’attività d’impresa, che, oltre a rispondere ad una funzione informativa, assolve quella funzione persuasiva finalizzata ad accrescere la propensione al consumo del prodotto o del servizio oggetto di pubblicità. È possibile risolvere, in tal modo, le questioni sorte in tema di individuazione dell’ambito applicativo dell’imposta, della base imponibile e della sua commisurazione, con particolare riguardo alle problematiche in tema di esenzioni e riduzioni (Cfr. di recente Cass.civ., sez. V., 31 marzo 2017, ordinanza n. 8427).

Questi temi li affronto qui:

http://www.innovazionediritto.it/download.php?file=2017_06_04.pdf

 

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Un’arma di distruzione di massa in cantina? Qualche dubbio sull’anagrafe dei rapporti finanziari.

Poco prima dell’estate è stata pubblicata un’interessante deliberazione della Corte dei conti, in materia di anagrafe dei rapporti finanziari, che ha avuto poco seguito nell’informazione tributaria. Vorrei spendere qualche riga intorno a questo studio, perché alcune delle conclusioni che vengono raggiunte dalla Corte dei conti stimolano ulteriori riflessioni sull’orrendo Moloch costituito dall’anagrafe dei rapporti.

L’assunto di fondo della deliberazione della Corte dei conti è questo: l’anagrafe dei rapporti finanziari è uno strumento potentissimo, che potrebbe avere un ruolo di impatto nella repressione dell’evasione, e viene, invece, sottoutilizzato dall’Agenzia delle entrate. Emerge dalla deliberazione uno stimolo verso un’azione più frequentemente incentrata sull’anagrafe dei rapporti.
Per la rappresentazione della posizione della Corte dei conti si può vedere la sintesi del documento a pag. 11-12 e più estesamente nel testo a pag. 36-40.
Su questa conclusione e su questo auspicio possono essere fatte tre brevissime chiose.

(1) MEGLIO DOPO CHE PRIMA.
Non è compito della Corte dei conti domandarsi se il legislatore abbia scelto la strada giusta. Io, però, posso domandarmelo. La risposta che mi dò è molto lineare: l’archivio dei rapporti finanziari è uno strumento pericolosissimo e che non porta benefici di rilievo rispetto al rischio che comporta.
In estrema sintesi: con una disposizione di vero assolutismo fiscale e contraria ad ogni minima parvenza liberale, nel 2011 si è deciso di consentire la costruzione di un archivio A PRIORI dei rapporti finanziari. Il legislatore ha creduto che non fosse sufficiente mantenere l’archivio anagrafico dei rapporti (da cui desumere con quali intermediari i contribuenti avevano intrattenuto rapporti), costruendo poi una veloce via di accesso ai dati richiedibili agli intermediari. Ha creduto opportuno dare vita, invece, ad una banca dati contenente direttamente i dati che potrebbero essere utilizzati nella fase di controllo.
Bisognerebbe indagare quanto una simile banca dati, costruita a priori, per tutti i cittadini (anche per coloro che non hanno mai manifestato alcuna pulsione evasiva) abbia un qualche riscontro in altri paesi OCSE. Mi aspetterei ben poche esperienze comparabili…
Si tratta di una banca dati pericolosissima, perché costruisce un bersaglio di grande appetibilità non solo per la criminalità organizzata, ma anche per tutti quei poteri (più o meno opachi) istituzionali che hanno interessi (più o meno confessabili) a conoscere la vita economica di larghe parti della cittadinanza. Si tratta della costruzione di uno strumento perfetto per qualsiasi assolutismo dell’epoca dell’informazione.
In conclusione: meglio sarebbe stato mantenere l’anagrafe delle semplici intestazioni, consentendo solo per i casi assoggettati a verifica, una canale rapido di accesso ai dati. Costruire una banca dati a priori, contenente i movimenti finanziari per tutti i contribuenti, significa dare vita ad un oggetto che mette in pericolo la vita economica e democratica del Paese.

(2) TANTI QUANTI?
La Corte dei conti lamenta un sottoutilizzo dello strumento: troppi pochi accessi alla banca dati. A pag. 33-34 della Deliberazione si trova una tabella riassuntiva degli accessi.
Prendiamo in considerazione il 2016. Quasi tremila accessi autorizzati da parte dell’Agenzia delle entrate per indagini finanziarie. A questi va aggiunta una quota dei circa 208.000 effettuati dalla Guardia di finanza. Poniamo che il 5% degli accessi della GDF sia indirizzato a fini fiscali (mi pare prudente, come frazione): avremmo circa 10.000 accessi a fini fiscali della GDF, cui aggiungere i quasi tremila dell’Agenzia delle entrate.
Il totale porta a 13.000 accessi alla banca dati.
In valore assoluto, non mi pare che si possano dire pochi. Nella prospettiva del recupero dell’evasione, bisognerebbe vedere a quanto valore accertato corrispondono (e a quanto contenzioso hanno portato).
Bisognerebbe poi considerare se questo tipo di accesso sia parte di una rettifica fondata solo sull’indagine finanziaria, o anche su altri elementi.
Senza contare che una diminuzione degli accessi per indagini finanziarie, rispetto agli anni antecedente il 2014, sconta anche i limiti sempre più ristretti posti prima dalla Corte costituzionale (per i lavoratori autonomi) e poi dal legislatore (per i limiti di rilevanza dei prelievi).
Difficile, allora, dire se questi accessi siano adeguati o meno, sulla base dei pochi dati che l’Agenzia delle entrate fornisce sulla propria azione di repressione. Dati che neppure la Corte dei conti conosce, per inciso.

(3) TANTO PIÙ GRANDE, TANTO MENO MANEGGEVOLE.
Oltre all’utilizzabilità per la repressione specifica di singoli casi di evasione, questa potente banca dati dovrebbe essere utile a fini statistici, per creare un modello di pericolosità fiscale: le informazioni sono utilizzate dall’Agenzia delle entrate “per le analisi del rischio di evasione” (mentre la precedente formulazione indirizzava l’attività non verso un modello, ma verso la ricerca di specifici casi di pericolosità: la disposizione recitava infatti che la banca dati era utilizzata anche “per la individuazione dei contribuenti a maggior rischio di evasione da sottoporre a controllo”).
La Corte dei conti critica la lenta elaborazione di questo modello e la sua sperimentazione da parte dell’Agenzia delle entrate (deliberazione p. 39-40).
Non sarei così critico con l’azione dell’Agenzia, in questo caso. La banca dati contiene i dati delle movimentazioni riferite ad oltre seicento milioni di rapporti (cui corrisponde quasi un miliardo di anagrafiche clienti). Già il bacino di estrazione dei dati è quindi di una ampiezza smisurata e richiede una ponderazione più che attenta di quali dati comparare, per non essere sommersi dal rumore irrilevante.
Inoltre, appare utopistica la formazione di un modello che sia adeguato a rappresentare un’evasione multiforme, che ha forme finanziarie molto varie: sembra quasi una petizione ingenua verso la formula magica di scoperta dell’evasione fiscale.
Anche in questa prospettiva, emerge la criticità di questa enorme banca dati: invece di questa pericolosa e mostruosa raccolta di dati, sarebbe stato più opportuno formare qualche banca dati mirata e specifica, più semplicemente maneggevole.

Riferimenti.
Deliberazione della Corte dei conti: Deliberazione 26 luglio 2017, n. 11/2017/G.
Riferimenti normativi: art. 7 d.p.r. 605/1973; art. 11 c. 2 e c. 4 d.l. 201/2011

 

 

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Timema e Thanatos. Tasse e morte.

L’accostamento tra arte e diritto consente di introdurre nuovi strumenti di analisi e di comprensione degli istituti, essendo manifestazioni delle aspirazioni della stessa coscienza collettiva, e tanto avviene in modo particolarmente immediato confrontando cinema e diritto, atteso che la realtà può essere meglio letta attraverso i rapporti che ne forniscono le immagini.

Questa funzione dello studio integrato del diritto e dell’arte, nelle diverse forme di rappresentazione, emerge particolarmente con riguardo al diritto tributario, i cui fondamenti andrebbero ricercati e connessi a principi etici e di solidarietà insiti nella coscienza collettiva.

In quest’ottica, può essere interessante esaminare le connessioni che possono essere rinvenute in ambito cinematografico tra la percezione dell’obbligo di versare le imposte e il terrore della morte, anche in chiave ironica e/o umoristica, consentendo di evidenziare il (dubbio) fondamento etico dell’obbligazione tributaria in un sistema di valori specifico e di comprendere meglio le distorsioni derivanti dall’inadempimento condiviso dalla coscienza collettiva.

Timema e Thanatos reinterpreta la dicotomia freudiana Eros e Thanatos: Timema, in greco antico, è il termine utilizzato per identificare le tasse, sia pure in senso lato, che rappresentano lo strumento essenziale di finanziamento delle spese pubbliche e dell’erogazione di servizi indivisibili, ed in quanto tale fonte di un’energia vitale, di una pulsione vitale; Tanatos, principio di morte o Dio della morte, è nemico della civiltà e si manifesta in modi differenti, tutti idonei a paralizzare l’attività creativa individuale e sociale.

Occorrerebbe riflettere sull’identificazione tra evasione fiscale e Tanatos; sulla influenza negativa della prima sulle risorse disponibili di uno Stato e sulla sua attività propulsiva, economica e sociale, valorizzando il concetto per cui il meccanismo dell’adempimento dell’obbligazione tributaria garantisce la vitalità stessa di uno Stato e alla base dell’obbligazione vi è innanzitutto un fondamento etico che si ravvisa nel collegamento tra il principio di capacità contributiva e quello di solidarietà di cui all’art. 2 della Costituzione.

http://www.editorialescientifica.com/autori/salvati-a/timema-e-thanatos-detail.html

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L’uovo di colombo

Gli accertamenti che recuperano le plusvalenze sulle cessioni di terreni agricoli venduti ad un prezzo inferiore a quello rivalutato (con versamento di imposta sostitutiva), sono motivati in modo sempre più bizzarro e interessante.

In un primo momento, l’Ufficio aveva affermato che, se la cessione avviene a un prezzo inferiore al valore di rivalutazione, quest’ultima diviene priva di efficacia e tornano applicabili le regole ordinarie di determinazione delle plusvalenze. Sicché il contribuente, dopo aver versato l’imposta sostitutiva a seguito di rivalutazione, poteva trovarsi nella situazione di dover versare anche le imposte relative alle plusvalenze calcolate sull’originario costo d’acquisto, come se la rivalutazione non fosse mai avvenuta, tamquam non esset. A meno che non avesse provveduto ad nuova rideterminazione del valore del terreno con l’indicazione in perizia di un valore inferiore rispetto a quello indicato in precedenza, sopportandone i relativi costi. Successivamente, anche a seguito di taluni orientamenti giurisprudenziali favorevoli al contribuente, l’Agenzia delle Entrate ha ricalibrato il tenore dei precedenti orientamenti, ritenendo valida la rivalutazione, ad esempio, qualora lo scostamento del valore indicato nel medesimo atto rispetto a quello periziato fosse “poco significativo” (risoluzione n. 53/E del 2015) o nel caso in cui il contribuente avesse comunque indicato in atto il valore rivalutato e si fossero versate le imposte di registro, ipotecarie e catastali sul valore di perizia indicato.

In sostanza, il venditore, in ipotesi di corrispettivo inferiore a quello periziato, può avvalersi della rivalutazione ai fini del calcolo della plusvalenza solo se ed in quanto sia stata dichiarata in atto questa differenza e il compratore abbia versato maggiori imposte di registro, ipotecarie e catastali calcolate sul valore periziato e non sul prezzo di acquisto inferiore, di modo che l’indicazione in atto del valore rivalutato sia vantaggiosa per il cedente, che potrà evitare i costi di una nuova perizia, e svantaggiosa per l’acquirente, che dovrà versare le imposte d’atto in misura maggiore.

Qualcuno, a Roma, deve avere pensato: “L’uovo di Colombo!”. Peccato che, così, ogni barlume di razionalità e di determinazione logica del presupposto di imposta sia andato in fumo.

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Il proprio e l’altrui: dubbi sugli obblighi informativi nell’Iva.

La buona fede soggettiva. Da molti anni, la giurisprudenza europea ed interna delimitano il concetto di buona fede soggettiva nell’Iva. Come sanno gli addetti ai lavori, il diritto di detrazione Iva viene limitato quando il contribuente era parte della frode o quando sapeva o avrebbe potuto sapere di partecipare ad una frode Iva.

Il punto centrale è dato quindi dagli obblighi di informazione imposti al contribuente. Quanto il contribuente deve indagare sulla propria controparte? Il tema è oggetto di dibattito in giurisprudenza e sinora è risolto (a volte più, a volte meno) ragionevolmente.

Confini spostati a piacimento. La recente attuazione della comunicazione delle fatture emesse e ricevute, apre un nuovo scenario. Infatti, come risulta dai provvedimenti di attuazione, saranno consultabili dal contribuente “i dati trasmessi dal soggetto passivo e, per quanto riguarda i dati fattura, anche dai suoi clienti e fornitori“: https://goo.gl/n1VQuH

Quindi, il contribuente potrà controllare se i propri fornitori hanno regolarmente emesso fattura (e, mi sembra di capire, anche se hanno versato l’Iva corrispondente). Sono stati estesi i poteri di informazione del contribuente.

Si tratta di poteri o di doveri? In caso di controversia concernente la buona fede Iva, l’Agenzia potrà sostenere che il contribuente poteva comunque venire a conoscenza della mala fede del fornitore, grazie ai nuovi mezzi messigli a disposizione? Se si crede che si tratti di doveri, si configura un nuovo pesantissimo onere in capo al contribuente.

Se un tale onere di informazione è configurabile forse per chi ha pochi fornitori, per chi ha molti fornitori non sembra ragionevole configurare un tale obbligo. Non si può pensare che il contribuente perda decine di ore per verificare non solo i propri adempimenti, ma anche quelli di tutte le parti correlate.

Rimedio: ragionevolezza e proporzionalità. Mi sembra che questa soluzione non sia accettabile, per un semplice motivo: confligge con i principi di ragionevolezza e proporzionalità (quest’ultimo così caro dalla Corte di giustizia). Non si può chiedere al contribuente di sostituirsi all’Agenzia, impiegando energie e tempo rilevantissimi, per adempimenti che non si possono dire riferiti a lui direttamente.

Insomma, al contribuente l’onere di fare impresa, all’Agenzia l’onere di controllare le infedeltà: è meglio non confondere i due piani e lasciare fare il proprio mestiere a quegli imprenditori che, con coraggio, creano ricchezza oggi in Italia.

Senza contare che emerge una contraddizione. O l’inadempimento del fornitore è così evidente dai dati informatici (ed allora perché l’Agenzia non ha immediatamente fermato il frodatore, avvisando i suoi clienti?), o l’inadempimento non è così evidente (ed allora, se neppure l’Agenzia se ne è accorta in tempo, si può davvero chiedere al contribuente di investigare meglio di un apparato costituito da 40.000 persone?).

Riferimenti: una recente decisione in materia di obblighi di buona fede è Corte di Giustizia C‐624/15 – Litdana; per la giurisprudenza interna cfr. invece Cass. civ. Sez. V, 21/4/2017, n. 10120; gli atti amministrativi di cui si parla in questo post sono collegati al Provvedimento Ag. entrate 27 marzo 2017.

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Prove diaboliche? Cessioni EXW e Iva.

Sono sempre più frequenti gli accertamenti tributari in cui si censura la mancanza di prova della fuoriuscita della merce, nell’ambito della disciplina Iva delle cessioni all’interno dell’Unione europea.

Le difficoltà di prova per il contribuente sono strettamente connesse all’abolizione delle frontiere tra gli Stati e alla mancata indicazione di un elenco di documenti stabilito dal diritto nazionale per certificare la fuoriuscita della merce e si avvertono maggiormente con riguardo alle cessioni «ex-works» o EXW, in cui il trasporto è effettuato a carico del cessionario.

La giurisprudenza europea ha più volte sostenuto la libertà di prova (sentenza Corte Giust. 6 settembre 2012, C-273/11) e l’Agenzia delle Entrate sembra adeguarsi a questo orientamento (Ris. 24.7.2014. n. 71).

In concreto, però, quali sono le prove che il contribuente può fornire in aggiunta alle fatture, ai pagamenti e alla compilazione dei modelli Intra? Se è l’acquirente a trasportare a proprio carico la merce, magari con mezzi propri verso Stati di frontiera, quale traccia resta del trasporto della merce?

A mio avviso, l’onere della prova potrebbe essere assolto con la produzione di alcuni documenti, dai quali ricavare le medesime informazioni presenti nel CMR cartaceo: ad esempio, una dichiarazione di ricezione della merce da parte dell’acquirente; la prova dell’iscrizione nei registri dello Stato dell’acquirente per le cessioni di beni mobili registrati; la dimostrazione della successiva vendita dei beni dall’acquirente a terzi, anche con estratti delle scritture contabili dell’acquirente; etc.

Sono tutti tasselli probatori che, in uno alle fatture, alle prove dei pagamenti e ai modelli Intra, possono fornire un quadro sufficiente a comprovare la fuoriuscita della merce.

 

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Un poco di garbo istituzionale, per favore.

Supponiamo che, in pendenza di un processo, il difensore di una delle parti scriva direttamente alla parte avversa (non al difensore, proprio alla parte avversaria) e la inviti a passare in studio per studiare insieme il migliore modo di sfruttare una innovazione legislativa che consente la definizione della lite. Un simile modo di fare sarebbe immediatamente censurato dall’Ordine di appartenenza e sarebbe bollato, nella considerazione dei colleghi, come un gesto denotante una certa mancanza di buona educazione professionale.
Cambiano le cose se il difensore che compie questo gesto rappresenta una parte pubblica? Per parte mia, sì, in peggio. Il difensore della parte pubblica ha doveri di lealtà e probità che sono rafforzati.
Invece, in occasione della recente definizione delle liti (il condono disciplinato dal d.l. 50/2017), alcuni miei clienti hanno ricevuto da un ufficio legale dell’Agenzia delle entrate una lettera, in cui si dava notizia alla parte processuale del condono e la si invitava a contattare lo stesso ufficio legale “per ulteriori informazioni”. Nessun riferimento veniva fatto nella lettera all’esistenza di un difensore costituito (e al fatto, che probabilmente, se proprio si vuole andare ad ascoltare i funzionari sul punto, sarebbe opportuno recarsi all’ufficio dell’Agenzia con il proprio difensore).
Poco male, si potrebbe dire. Ogni difensore mediamente diligente aveva già informato i propri clienti e compiuto le valutazioni strategiche; e normalmente un simile incontro con i funzionari dell’Agenzia non avrebbe alcuna utilità.
Infastidisce, però, questa mancanza di sensibilità processuale, questo volere scavalcare un difensore costituito.
Sembra che il nuovo Direttore dell’Agenzia sia interessato a voler smussare alcune asperità nel rapporto tra Fisco e contribuenti: anche attraverso il garbo istituzionale e il rispetto delle funzioni difensive passa la strada del miglioramento dei rapporti con i contribuenti. Aspettiamo miglioramenti in questa direzione, fiduciosi.

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